Camminavo per il paese. Un gesto semplice, quasi banale. Quattro passi per sgranchirsi, per respirare un po’ di aria – per quanto contaminata – e magari ritrovare il legame con un luogo che dovrebbe essere casa. Poi l’occhio cade su ciò che non c’è più: l’albero. Un bell’albero, rigoglioso e forte, ora sostituito da una spianata di cemento che brilla al sole come una ferita fresca. E mentre cerchi di capire il senso di quella scelta – che senso non ha – alzi gli occhi e vedi le montagne. Quelle stesse montagne che, qualche anno fa, sarebbero state piene di neve, oggi spoglie come un frigorifero vuoto.
Dove stiamo andando? È la domanda che ci poniamo tutti, o forse nessuno, persi tra le notifiche del telefono e le pubblicità di SUV elettrici che promettono di salvare il pianeta mentre lo calpestano con pneumatici ecocompatibili.
Il progresso al sapore di cemento
L’albero non c’è più, e non è una metafora. È un fatto. Lo hanno tolto per “fare spazio”, che è il mantra preferito di chi distrugge senza pensarci due volte. Spazio per cosa? Per una piazzola vuota? Per un parcheggio che nessuno userà? Per un’idea mal concepita di modernità che odora di asfalto e mediocrità? Qualcuno, da qualche parte, ha deciso che quell’albero era sacrificabile. Non importa che fosse lì da anni, che desse ombra e frescura, che fosse un piccolo angolo di bellezza in un mondo che ne ha sempre meno.
E non è un caso isolato. L’Italia è disseminata di ferite simili: alberi abbattuti per fare spazio al nulla, parchi sacrificati sull’altare del “progresso”, paesaggi distrutti da decisioni prese in stanze anonime da persone che il verde lo vedono solo in TV. Ci stiamo auto-condannando a vivere in un mondo sempre più grigio, sempre più caldo, sempre più invivibile.
Le montagne spoglie: un triste promemoria
Poi alzi gli occhi e vedi le montagne. O meglio, vedi quello che rimane di loro. Niente neve, niente bianco, niente inverno. Solo pendii spogli, brulli, che sembrano urlare la nostra incompetenza. La neve non è più un miracolo stagionale, ma un ricordo che si affievolisce anno dopo anno. Eppure, mentre le montagne si svuotano, noi continuiamo a vivere come se nulla fosse. Apriamo le piste da sci con cannoni sparaneve che consumano energia come se fosse acqua – quella stessa acqua che scarseggia – e ci diciamo che va tutto bene. Non va tutto bene.
Le montagne spoglie sono un simbolo, un promemoria, un avvertimento. Ci dicono che stiamo sbagliando strada, che stiamo accelerando verso un futuro in cui l’inverno sarà solo una voce nei libri di scuola. E noi? Noi continuiamo a costruire autostrade, a cementificare colline, a negare l’evidenza.
La cultura del “non è un problema mio”
Forse è questo il vero problema. Non è che non vediamo cosa sta succedendo. È che non vogliamo vederlo. Ci diciamo che non è colpa nostra, che non possiamo farci nulla, che tanto è il sistema a essere sbagliato. E nel frattempo ci crogioliamo nella nostra indifferenza, sperando che qualcun altro risolva il problema. È la cultura del “non è un problema mio”, quella stessa cultura che ci ha portato a vivere in un mondo sempre più devastato.
Ma è un problema nostro. Lo è sempre stato. Ogni decisione che prendiamo, ogni albero che abbattiamo, ogni scelta che privilegia il cemento alla natura contribuisce a questo disastro. E finché non lo capiremo, finché non ci assumeremo la responsabilità delle nostre azioni, non cambierà nulla.
La falsa promessa della modernità
Il cemento, l’asfalto, le montagne spoglie: tutto questo è il risultato di una modernità che abbiamo abbracciato senza pensarci troppo. Ci hanno detto che il progresso era la risposta a tutto, che la tecnologia avrebbe risolto ogni problema, che il futuro sarebbe stato migliore. E noi ci abbiamo creduto. Ma la verità è che il progresso, da solo, non basta. La tecnologia non è una bacchetta magica. E il futuro che stiamo costruendo sembra più un incubo che un sogno.
Abbiamo sacrificato il verde per il grigio, la natura per la comodità, la bellezza per l’efficienza. E ora ne stiamo pagando il prezzo. Le città sono più calde, l’aria è più inquinata, le montagne sono spoglie e gli inverni sono scomparsi. È questo il progresso che volevamo?
Cosa possiamo fare?
La domanda, alla fine, è sempre la stessa: cosa possiamo fare? La risposta è complessa, ma non impossibile. Dobbiamo cambiare mentalità. Dobbiamo smettere di vedere la natura come un ostacolo e iniziare a vederla come una risorsa. Dobbiamo ripensare il nostro rapporto con l’ambiente, con le città, con il pianeta.
Non è facile, certo. Ma è necessario. Perché se non lo facciamo, il futuro che ci aspetta sarà fatto di cemento e montagne spoglie. E allora, forse, non ci resterà altro che camminare per le strade delle nostre città, alzare lo sguardo e chiederci: dove stiamo andando? E, soprattutto, perché non ci siamo fermati prima?