La lettera che Bari non dimenticherà

C’è un Natale diverso, un Natale che non canta “Jingle Bells” ma grida aiuto. Accade al Politecnico di Bari, dove, tra luci e festoni, compare una lettera appesa all’albero di Natale. Non è una lista di desideri, ma un grido di dolore: “Caro Babbo Natale, vorrei sparire”. È il messaggio di uno studente, scritto con una lucidità che gela il sangue. Non c’è retorica, non c’è poesia: solo verità crude e disarmanti. Un’esistenza diventata “estenuante”, la voglia di fuggire da una sofferenza che nessuno sembra notare.

A trovare quella lettera è Anna Castellano, docente del Politecnico. Poteva ignorarla, poteva far finta che fosse uno scherzo di cattivo gusto. Invece, ha deciso di cercare. Di non lasciare che quelle parole finissero nel dimenticatoio di un social network o sotto una pila di decorazioni natalizie. E grazie a lei e all’intervento della madre, il ragazzo è stato individuato. Sì, dietro quella lettera c’era un volto, una storia. Una persona.

Ma soffermiamoci un attimo: quante lettere simili restano senza risposta? Quanti studenti, ogni giorno, gridano aiuto senza trovare una Castellano pronta ad ascoltarli? Questo è il cuore del problema. Non si tratta solo di un episodio isolato, ma del riflesso di un disagio generazionale. La generazione che avrebbe tutto – tecnologia, opportunità, connettività – si sente invece prigioniera di un sistema che non contempla l’errore, il dubbio, la fragilità.

L’autore della lettera, con le sue parole, ci ricorda che la sofferenza non ha sempre bisogno di grandi tragedie per esistere. A volte basta un insieme di piccole crepe che, sommate, fanno crollare tutto. “Vorrei sparire” non è solo il grido di chi non ce la fa, ma l’accusa di un sistema che lascia indietro chi non riesce a tenere il ritmo.

E il Politecnico? Tace. Per delicatezza, forse. O forse perché affrontare il tema della salute mentale in modo serio significherebbe mettersi in discussione, riconoscere che l’accademia – e il mondo del lavoro che essa alimenta – non è sempre il faro di speranza che si racconta. Invece, la salute mentale è trattata come un problema individuale, qualcosa di cui ci si vergogna, qualcosa che non riguarda “gli altri”. Una mentalità che non possiamo più permetterci.

I dati parlano chiaro. I giovani sono stanchi. Sono sopraffatti. Sono vittime di un’idea tossica di successo che non lascia spazio al fallimento, né al riposo. E così si scrivono lettere a Babbo Natale. Non per chiedere regali, ma per chiedere una tregua. Una pausa da un’esistenza che corre troppo veloce, che non aspetta nessuno. Un sistema che calcola tutto – voti, performance, curriculum – ma dimentica la cosa più importante: le persone.

Questa storia non è solo la storia di uno studente del Politecnico di Bari. È il manifesto di una generazione che si sente invisibile, ignorata, schiacciata. Una generazione che, quando chiede aiuto, deve farlo attraverso gesti estremi, perché altrimenti non viene ascoltata. E questo, più di tutto, dovrebbe indignarci.

Ma allora, cosa facciamo? Aspettiamo che un’altra lettera ci ricordi che stiamo fallendo come società? Aspettiamo che il problema diventi così grande da non poter più essere ignorato? O iniziamo a costruire un sistema che metta al centro le persone, non i numeri? Che offra sostegno, non giudizio? Che sappia riconoscere la fragilità come parte dell’esperienza umana, non come un difetto da correggere?

Questa lettera è un campanello d’allarme. Ignorarla sarebbe imperdonabile. Perché dietro quelle parole c’è una vita che può essere salvata. Ma non con un gesto isolato, non con una lettera ritrovata per caso. Serve di più. Serve ascolto. Serve cambiamento. Serve coraggio. Perché il vero Natale, quello che conta, è quello in cui nessuno si sente più solo.

Ancora Nessun Commento

Lascia una Risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.