Succede sempre così. Una scintilla, una piccola fiamma accesa in diretta televisiva, e subito il popolo dei social diventa un incendio incontrollabile di odio. Guillermo Mariotto, giudice di Ballando con le Stelle, si ritrova al centro di un vortice di insulti, accuse e critiche per un “gestaccio” – parola che di per sé suggerisce un livello di gravità tutto da verificare – durante una puntata del programma. Apriti cielo: gli italiani, armati di smartphone e cattive intenzioni, si riversano nei commenti come un fiume in piena, pronti a sbranare il loro nuovo bersaglio.
E così assistiamo a uno spettacolo ben più deprimente di qualsiasi gaffe televisiva: l’italiano medio sui social, nella sua forma più squallida, pronto a sfogare le proprie frustrazioni sul primo personaggio pubblico che passa. La scena è sempre la stessa: un account anonimo, una foto profilo di dubbia qualità (un tramonto, un cane, un’immagine motivazionale) e un fiume di insulti che nemmeno un’intera puntata di Ballando potrebbe contenere. Non importa cosa sia successo, non importa se Mariotto abbia davvero fatto qualcosa di grave: ciò che conta è partecipare al linciaggio collettivo, sentirsi parte di una massa che giustifica ogni crudeltà con un “se lo merita”.
La tristezza dell’approvazione
La cosa più squallida, però, non è l’insulto in sé, ma il bisogno di approvazione che lo accompagna. Perché dietro ogni commento velenoso c’è una disperata ricerca di like, di cuoricini, di quel misero segnale digitale che sembra dire: “Bravo, hai ragione tu, sei uno di noi”. È una tristezza profonda, una miseria umana che non conosce confini. L’italiano medio non insulta per convinzione, insulta per essere accettato. È come il bullo della scuola che picchia il più debole per guadagnarsi un posto nel branco. Solo che, al posto del cortile, c’è una tastiera.
E qui la storia diventa ancora più grottesca. Perché mentre si sfogano contro Mariotto, gli stessi che scrivono quei commenti sono quelli che, pochi giorni dopo, faranno post sul bullismo o sulle ingiustizie sociali. È un’ipocrisia abissale, il riflesso di una società che lapida la “puttana” del giorno con la stessa furia cieca di chi, nella Bibbia, raccoglieva le pietre prima che Gesù fermasse tutti con quel celebre “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”. La differenza è che oggi non c’è nessuno a fermarci, e le pietre non sono di granito, ma di byte. E fanno male lo stesso.
Un popolo inculto e ignorante
Ma non fermiamoci qui. Perché dietro questa furia c’è qualcosa di ancora più radicato: l’incultura, la stupidità, l’ignoranza di un popolo che sembra avere un livello medio di istruzione pari a quello di un gabinetto sporco di merda. Sì, l’ho detto. E non mi dispiace. Perché basta guardare i commenti sotto un qualsiasi post di polemica per capire il livello a cui siamo arrivati. Persone incapaci di argomentare, incapaci di confrontarsi, capaci solo di vomitare insulti e slogan come un disco rotto.
Questa non è solo una questione di cattiveria o rabbia repressa. È un problema culturale. In un Paese dove si legge poco, dove l’informazione è sempre più superficiale, dove il pensiero critico è un’utopia, i social diventano lo specchio perfetto di una società che non sa più pensare. E quando non sai pensare, l’unica cosa che puoi fare è odiare. Odiare chi è diverso, chi è famoso, chi è visibile, chi è, semplicemente, “altro”.
I social come campo di battaglia: chi colpisce per primo vince
Pensiamoci un attimo. I social network avrebbero potuto essere uno strumento di connessione, dialogo, persino crescita personale. Invece, sono diventati una sorta di Colosseo digitale, dove gli utenti si scagliano contro chiunque sia al centro dell’arena. E poco importa se il malcapitato sia Guillermo Mariotto o chiunque altro: l’importante è sfogare la propria rabbia repressa, trovare un capro espiatorio per i fallimenti personali e lanciare quel commento velenoso che, per qualche secondo, dà l’illusione di un potere che non si ha nella vita reale.
Nel caso di Mariotto, poi, il bersaglio è particolarmente ghiotto. Uno stilista, giudice televisivo, con una personalità eccentrica e provocatoria: il perfetto nemico pubblico per un popolo che ancora non ha digerito il concetto di diversità. I commenti, infatti, raramente si limitano all’episodio televisivo. No, vanno oltre, scavano nel personale, trasformano una gaffe in un processo sommario contro tutto ciò che Mariotto rappresenta. Non è più una questione di un gesto inappropriato: diventa un atto di accusa contro il suo modo di essere, di parlare, persino di esistere.
L’illusione di giustizia e il veleno del branco
Ma perché lo facciamo? Perché l’italiano medio – e non solo – sente il bisogno di trasformarsi in un giustiziere digitale? La risposta è semplice: perché è facile. Dietro uno schermo, protetti dall’anonimato o dall’apparente distanza della rete, ci sentiamo invincibili. Possiamo dire cose che mai oseremmo pronunciare nella vita reale, possiamo essere crudeli senza affrontarne le conseguenze. E soprattutto, possiamo far parte di qualcosa.
Perché, diciamolo chiaramente, l’hater medio non agisce da solo. Ha bisogno del branco, della massa che lo sostiene, dei like che approvano il suo commento. È un comportamento tribale, primordiale, che trova nei social il suo terreno fertile. E poco importa se quello che scrive è ingiusto, esagerato o semplicemente stupido: l’importante è che faccia rumore, che venga notato, che contribuisca a quella sensazione collettiva di potere che, alla fine, non è altro che un’illusione.
Mariotto e il paradosso della popolarità
Torniamo a Mariotto. È un personaggio pubblico, sì, e come tale deve accettare un certo grado di esposizione e critica. Ma c’è un limite, e quel limite viene superato ogni giorno sui social. Non si tratta più di commentare un programma televisivo o esprimere un’opinione: si tratta di demolire una persona, di ridurla a un oggetto di scherno, di farne un bersaglio per tutte le frustrazioni di chi commenta.
E qui sta il paradosso. La stessa società che celebra la libertà di espressione e l’inclusività è quella che, con un clic, si trasforma nel peggior carnefice. Gli stessi utenti che si indignano per il bullismo nelle scuole o le discriminazioni sul lavoro sono quelli che, online, usano parole che farebbero rabbrividire persino un troll professionista. È come se i social network fossero una valvola di sfogo, un luogo dove tutto è concesso, dove non esistono regole di rispetto o buon senso.
Un appello che nessuno ascolterà
E allora, cosa resta? Resta solo la consapevolezza amara di una società che, pur avendo accesso a strumenti straordinari, li usa nel modo peggiore possibile. E forse, dietro tutto questo odio, c’è solo una grande insicurezza. Una paura di essere dimenticati, di non contare nulla, di non lasciare traccia. E allora insultiamo, giudichiamo, lapidiamo. Perché nel farlo, per un attimo, ci sentiamo vivi. Ma è una vita misera, e il prezzo da pagare è la nostra umanità.