Il Premio Nobel per la Pace di quest’anno è stato assegnato alla Nihon Hidankyo, un’organizzazione giapponese che raccoglie i sopravvissuti alle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Un premio che fa rumore, ma non per la sua eco, piuttosto per il silenzio assordante che circonda il tema del disarmo nucleare. Sul palco di Oslo, a ritirare il premio, c’era Terumi Tanaka, co-presidente dell’organizzazione, che ha offerto un discorso di accettazione che non era solo un resoconto storico, ma un grido di dolore e di rabbia, rivolto a un mondo che sembra sordo. Tanaka aveva 13 anni quando la bomba esplose, radendo al suolo Hiroshima e trascinando con sé cinque membri della sua famiglia. Cinque persone, spazzate via in un lampo, in una nuvola che oggi chiamiamo “a fungo”, quasi fosse un dettaglio decorativo in un’atrocità inimmaginabile. E nel raccontare questa tragedia personale, Tanaka ha sottolineato una verità amara: da quel giorno, il mondo non ha imparato nulla. Non solo gli arsenali nucleari non sono diminuiti, ma sono aumentati.
Il Risiko nucleare globale
È grottesco pensare che mentre si premia chi chiede il disarmo, i grandi del mondo giocano ancora a Risiko nucleare. Russia, Stati Uniti, Cina, Israele: tutti con il dito sospeso sul pulsante, a ricordarci che il tabù nucleare – quel fragile equilibrio che ci ha impedito di distruggerci negli ultimi settant’anni – è una corda tesa sopra un abisso. Tanaka ha dichiarato che “ognuno di voi potrebbe diventare una vittima o un carnefice, in qualsiasi momento”. Una frase che scuote, perché non è solo un ammonimento: è una condanna sospesa. Viviamo in un’epoca in cui il destino del mondo può essere deciso dalla paranoia di un leader o da un calcolo sbagliato. La pace mondiale appesa al filo della retorica geopolitica, con guerre a bassa intensità che rischiano ogni giorno di accendersi come benzina su un fuoco.
Ci sono momenti, nella storia, in cui le parole pesano più delle bombe. Il discorso di Tanaka è stato uno di quei momenti. Ma la domanda che dobbiamo porci è: serve davvero? Serve davvero ricordare al mondo quanto l’umanità sia già stata distrutta da quelle bombe? Serve raccontare che ci sono ancora oggi sopravvissuti che portano nel corpo e nella mente le cicatrici di quella follia? O il mondo ha ormai sviluppato un’insensibilità sistemica, una sorta di immunità emotiva alle tragedie altrui? Viviamo un’epoca in cui le atrocità si accavallano, si sovrappongono, si dimenticano, sostituite da nuove tragedie sempre più sensazionalistiche. E così, Hiroshima e Nagasaki diventano capitoli di un libro di storia, non ferite aperte che dovrebbero ancora bruciare.
Una chiamata all’azione per il futuro
Tanaka, però, non si arrende. Nel suo discorso ha esortato le nuove generazioni a raccogliere il testimone di questa lotta per il disarmo nucleare. Un invito che suona quasi ironico, considerando che i giovani di oggi sono cresciuti in un’epoca in cui il rischio nucleare è un’ombra lontana, un ricordo della Guerra Fredda che non hanno mai vissuto. Per loro, la minaccia nucleare è una cosa da film di fantascienza, non una realtà tangibile. Ed è qui che sta il pericolo più grande: il tabù nucleare non è solo un accordo politico, è anche una costruzione culturale. E come tutte le costruzioni culturali, può crollare se non viene continuamente mantenuto.
Il messaggio di Tanaka è chiaro, ma la sua efficacia dipende da quanto siamo disposti ad ascoltarlo. E qui entra in gioco l’ironia amara di questo Nobel. Lo si assegna a un’organizzazione che lotta contro le armi nucleari, ma chi ha il vero potere di cambiare le cose – i governi, le élite militari, le grandi potenze – difficilmente cambierà direzione. Perché, diciamolo chiaramente, le armi nucleari non sono solo strumenti di distruzione: sono simboli di potere, di prestigio, di deterrenza. Sono la moneta di scambio del mondo moderno, e nessuno vuole essere l’unico a rinunciare al proprio arsenale. È il dilemma del prigioniero applicato su scala globale: nessuno vuole fare il primo passo, perché tutti temono che gli altri non lo seguiranno.
E così, mentre celebriamo il coraggio della Nihon Hidankyo, continuiamo a vivere in un mondo dove la minaccia nucleare è una realtà quotidiana. Un mondo dove le parole di Tanaka, per quanto potenti, rischiano di rimanere inascoltate. Ma forse, in fondo, è proprio questo il punto. Forse il Nobel non è stato assegnato per cambiare le cose, ma per ricordarci quanto siano difficili da cambiare. Per ricordarci che la pace non è un traguardo, ma una lotta continua. E che questa lotta, per quanto disperata, è l’unica cosa che ci separa dal baratro. Un baratro che, come ci ha ricordato Tanaka, è sempre più vicino di quanto vorremmo credere.