Benjamin Netanyahu, il leader israeliano che ha fatto della politica un’arte di dominio e della retorica un’arma letale, si trova ora di fronte a una Corte che non si lascia intimidire. La Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato d’arresto nei suoi confronti e di Yoav Gallant, ex Ministro della Difesa, accusandoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Finalmente, verrebbe da dire. Eppure, questa non è solo una storia di giustizia, ma il perfetto specchio di un mondo in cui l’impunità sembra un diritto acquisito per chi ha abbastanza potere.
Netanyahu si è costruito un impero politico basato su una narrativa di autodifesa e superiorità morale, giustificando ogni azione, per quanto brutale, con la sicurezza di Israele. Ma 40.000 morti civili nella Striscia di Gaza non possono essere derubricati come “danni collaterali“. Nessun esercito difensivo rade al suolo interi quartieri, uccide donne e bambini e lascia dietro di sé una scia di distruzione tale da far sembrare Gaza un cimitero a cielo aperto.
La realtà è che ciò che Netanyahu ha orchestrato non si limita alla guerra contro Hamas. È un conflitto che si nutre di vite civili, di sofferenza e di una strategia che sa di epurazione. Ogni bomba sganciata è un messaggio: qui comanda Israele, e chi si oppone pagherà con il sangue.
Per decenni, Netanyahu ha camminato sopra le regole del diritto internazionale come se fossero una passerella di fronte ai suoi elettori. La sua arroganza si è nutrita del silenzio complice di alleati come gli Stati Uniti, pronti a chiudere un occhio, o entrambi, su qualsiasi abuso in nome della lotta al terrorismo. Eppure, il mandato della CPI è un monito: anche chi si considera intoccabile può essere chiamato a rispondere delle proprie azioni.
Certo, Israele non riconosce la Corte Penale Internazionale, e con lui neanche gli Stati Uniti. Ma cosa dice questo sulla legittimità morale di chi si vanta di essere il faro della democrazia in Medio Oriente? Non riconoscere un tribunale internazionale non cancella la realtà dei crimini, né il peso delle vite spezzate.
Ogni volta che Netanyahu è messo sotto accusa, il primo scudo che brandisce è l’antisemitismo. Criticare Israele diventa automaticamente un attacco alla sua identità ebraica, un atto di odio che non tiene conto della storia e della sofferenza del popolo ebraico. Ma confondere deliberatamente la critica politica con il pregiudizio etnico è un atto di malafede che svilisce entrambe le questioni.
La verità è che condannare le azioni di un governo non significa odiare un popolo. Le vittime di Gaza non sono meno umane di quelle di Israele. Ogni vita spezzata merita lo stesso rispetto, e ogni crimine deve essere giudicato per ciò che è: un atto di disumanità che non trova giustificazione.
Il mandato della CPI non è solo un atto giuridico, ma anche un termometro della crisi morale della comunità internazionale. Gli Stati Uniti, fedeli alleati di Israele, hanno definito l’iniziativa “oltraggiosa e illegale“. La politica americana di protezione incondizionata a Israele è un esempio lampante di come il potere militare e politico possa manipolare la giustizia internazionale.
In Europa, invece, la reazione è più sfumata. L’Italia, ad esempio, ha dichiarato che rispetterà le leggi internazionali e arresterà Netanyahu e Gallant se dovessero mettere piede sul suo territorio. Ma quanto è credibile questa affermazione? Nel gioco delle alleanze, la giustizia spesso finisce sotto il tappeto per non turbare gli equilibri geopolitici.
La figura di Netanyahu passerà alla storia non solo per i suoi anni al potere, ma per il peso delle vite spezzate durante il suo mandato. Se il diritto internazionale avrà il coraggio di andare fino in fondo, potrebbe rappresentare un precedente importante: un leader accusato di crimini di guerra che non riesce a sfuggire al giudizio. Ma se questo mandato resterà solo un simbolo, sarà l’ennesima prova che il mondo funziona a due velocità: una per i potenti e una per tutti gli altri.
Gaza è un grido di dolore che nessuna retorica può silenziare. I volti dei bambini uccisi, i quartieri ridotti in macerie, le vite spezzate non sono numeri, ma testimonianze che chiedono giustizia. E Netanyahu, per quanto possa contare su alleanze e silenzi compiacenti, non potrà cancellare queste verità.
La giustizia non è un lusso, ma un diritto. E il mandato della CPI, per quanto tardivo, è un passo nella direzione giusta. Se la comunità internazionale continuerà a voltarsi dall’altra parte, il peso di questa tragedia sarà un marchio indelebile non solo su Netanyahu, ma su tutti noi.