Una casa bruciata, un selfie, milioni di views. No, non è una puntata distopica di una serie Netflix, ma il nuovo standard della comunicazione umanitaria nell’era dei social. Una donna perde tutto in un incendio devastante e chiede aiuto non con una raccolta fondi tradizionale, ma invitando gli utenti a guardare il suo video, generare visualizzazioni e, ovviamente, ricavi. Tra lacrime vere o presunte e un paesaggio post-apocalittico alle spalle, l’appello è chiaro: non datemi soldi, datemi click. E i click arrivano, insieme a un vortice di ironie, critiche e, perché no, anche soldi.
Dal disastro al marketing: una nuova narrazione
Questa storia, più che parlare di solidarietà, parla di un cambiamento radicale nel modo in cui percepiamo l’aiuto e lo sfruttiamo. Non si tratta solo di salvare vite o ricostruire case, ma di costruire un brand, di sfruttare l’empatia come leva per l’engagement. La richiesta di views è geniale nella sua semplicità: non vi chiedo di mettere mano al portafoglio, vi chiedo solo di fare quello che fate già ogni giorno – scrollare il feed e cliccare su un video. È meno impegnativo, meno costoso, e permette a chi lo fa di sentirsi generoso senza muovere un dito.
Ma questa nuova forma di aiuto solleva interrogativi inquietanti. È davvero solidarietà, o è un’astuta strategia di monetizzazione? E, soprattutto, cosa dice di noi il fatto che rispondiamo più prontamente a un video emozionale che a una raccolta fondi diretta?
Paris Hilton e il marketing della beneficenza
In questa narrazione già surreale si inserisce Paris Hilton, che con il suo tocco dorato riesce a trasformare anche la beneficenza in un esercizio di branding. In dieci minuti raccoglie fondi per ospitare famiglie sfollate all’Hilton (ma non quello di famiglia, ovviamente) e ci tiene a sottolineare quanto la generosità di tutti stia facendo la differenza. Un messaggio nobile, certo, ma anche un promemoria di come la beneficenza, nel mondo dei ricchi e famosi, sia sempre un po’ sospetta. Perché il tag all’Hilton? Perché sottolineare il nome della catena? La solidarietà diventa una performance, un modo per rafforzare il proprio brand e quello altrui.
La macchina del cinismo social
Poi ci sono i commenti, le polemiche, le analisi taglienti come questa. C’è chi accusa la donna di strumentalizzare il disastro, chi si indigna per la richiesta di views invece che di soldi, e chi, ovviamente, la difende. Perché viviamo in un’epoca in cui ogni gesto, ogni parola, ogni lacrima viene sezionata, analizzata, giudicata.
Ma il cinismo non è solo nei commenti. È nella struttura stessa dei social, che premiano le storie più emozionali, più scioccanti, più virali. È nel modo in cui trasformiamo tragedie reali in spettacoli da consumare rapidamente, tra un meme e un tutorial di trucco.
La tristezza della viralità
C’è qualcosa di profondamente triste in questa storia. Non nella richiesta di aiuto in sé, ma nel fatto che ormai l’aiuto debba passare attraverso un filtro di intrattenimento. Le tragedie non bastano più. Devono essere raccontate con il giusto mix di emozione e storytelling, devono essere confezionate per attirare l’attenzione in un mare di contenuti.
E forse è proprio questo il problema. Non abbiamo più empatia per le tragedie vere. Abbiamo empatia solo per le tragedie che ci colpiscono nel modo giusto, che ci fanno sentire parte di qualcosa senza chiedere troppo.
Il costo umano dei social
Ma cosa succede alle persone dietro questi video? Cosa succede quando una madre, dopo aver perso tutto, si sente costretta a trasformare il suo dolore in contenuto? Forse le dà un senso di controllo, forse è un modo per reagire. O forse è solo l’ennesima prova di come i social abbiano cambiato il nostro rapporto con la realtà, trasformando ogni esperienza – anche la più traumatica – in materiale per il feed.
Il futuro della solidarietà
Dove ci porterà tutto questo? La solidarietà diventerà sempre più una questione di views e follower? Le tragedie saranno giudicate in base alla loro viralità? E, soprattutto, cosa significa tutto questo per chi è davvero in difficoltà?
Forse è ora di fermarci e riflettere. Non solo su come aiutiamo gli altri, ma su cosa stiamo diventando come società. Perché se continuiamo su questa strada, rischiamo di perdere qualcosa di fondamentale: la capacità di vedere gli altri come persone, e non come storie da condividere.