Immigrati in catene e il grande teatro dell’ipocrisia americana

Gli Stati Uniti hanno di nuovo alzato il sipario su uno dei loro spettacoli preferiti: la caccia all’immigrato. Questa volta il palcoscenico è allestito con un’iconografia perfetta: voli militari, uomini e donne ammanettati, foto studiate per impressionare l’opinione pubblica. E il messaggio è chiaro: America First, ma prima ancora il circo della propaganda.

Donald Trump e la sua amministrazione hanno deciso di intensificare gli arresti e le espulsioni di migranti irregolari. Operazioni spettacolari, perché il potere si esercita anche con le immagini, e il consenso si costruisce sulla paura. La Casa Bianca ha diffuso foto di migranti in catene, una scelta così deliberata che sembra presa da un manuale di psicologia politica. Non bastava espellerli, bisognava umiliarli. Non bastava mostrare fermezza, bisognava esibire il pugno di ferro.

L’America costruita dagli immigrati che odia gli immigrati

Facciamo un passo indietro. Gli Stati Uniti sono una nazione nata da coloni, sviluppata da immigrati, arricchita dallo sfruttamento di chi arrivava con la speranza di una vita migliore. Dal sogno all’incubo, il passo è stato breve. Perché chi ieri sbarcava a Ellis Island con la valigia di cartone oggi chiude i porti e costruisce muri.

L’ipocrisia è servita su un piatto d’argento. L’America si è sempre nutrita di lavoratori stranieri, dalla manodopera cinese nelle ferrovie del XIX secolo agli ispanici che oggi mandano avanti intere industrie. Ma c’è un punto fondamentale: accettare gli immigrati quando servono, demonizzarli quando diventano il perfetto capro espiatorio. È sempre stato così.

Il circo mediatico: il migrante come nemico pubblico

Le immagini dei migranti in catene non sono casuali. Sono un atto di guerra culturale, il modo più rapido per trasformare uomini e donne disperati in criminali agli occhi dell’opinione pubblica. Se fossero semplicemente espulsi, il messaggio perderebbe potenza. Se invece li mostri ammanettati, diventa chiaro: questi non sono esseri umani, sono un problema da risolvere.

Ma chi sono davvero queste persone? Per lo più, lavoratori in cerca di una vita dignitosa, famiglie che fuggono da guerre, violenze, miseria. Ma questo è un dettaglio trascurabile quando la narrazione deve essere efficace. Trump lo sa, i suoi alleati lo sanno, la storia lo insegna: se vuoi controllare un popolo, devi dargli un nemico.

Messico e Cina: il teatro si allarga

Questa volta, le espulsioni di massa non sono solo una questione interna. Trump ha deciso di legare i dazi contro il Messico e la Cina al problema dell’immigrazione e del traffico di droga. Un capolavoro di strategia politica: mescolare temi diversi, creare una connessione emotiva tra crisi economica e crisi migratoria.

Il Messico, con la sua consueta compostezza diplomatica, ha risposto dicendo che accoglierà i propri cittadini rimpatriati. Ma la vera questione non è la collaborazione messicana: è la narrativa tossica che Trump sta costruendo. Gli immigrati non sono più solo immigrati. Sono il male assoluto, la radice di tutti i problemi.

E la Cina? Pechino ha risposto come sa fare meglio: negando ogni responsabilità e minacciando azioni legali presso il WTO. D’altronde, è difficile non vedere la forzatura di questa strategia: collegare il fentanyl all’immigrazione messicana, poi punire la Cina con i dazi. Un gioco di prestigio politico che funziona solo con chi non si ferma a pensare.

La guerra ai poveri, non alla povertà

Perché il punto centrale è questo: non si sta combattendo la povertà, si stanno combattendo i poveri. Si stanno colpendo i sintomi di un problema che nessuno ha interesse a risolvere davvero.

Se gli Stati Uniti volessero ridurre l’immigrazione irregolare, investirebbero nei Paesi di origine per migliorare le condizioni di vita. Se volessero davvero combattere il traffico di droga, si concentrerebbero sulla riduzione della domanda interna. Ma queste soluzioni richiedono tempo, investimenti, diplomazia. Molto più semplice mandare le telecamere a riprendere i voli di deportazione.

E l’Europa? Lo specchio di un’ipocrisia globale

Non facciamoci illusioni: quello che succede negli Stati Uniti è solo un riflesso amplificato di dinamiche che vediamo ovunque, Europa inclusa. Mentre Trump esibisce i suoi immigrati in catene, l’Unione Europea discute su come esternalizzare le frontiere, come respingere i migranti senza assumersene la responsabilità. Si finanziano campi di detenzione in Libia, si stringono accordi con dittatori africani per fermare le partenze, si ignora il Mediterraneo che continua a inghiottire vite umane.

La retorica è la stessa: l’immigrato è il problema, non le politiche che lo costringono a fuggire. L’Occidente non ha smesso di sfruttare il Sud del mondo, ha solo trovato modi più raffinati per negare la propria responsabilità. E ogni tanto, per distrarre l’opinione pubblica, si inscena la stessa pantomima: il migrante in catene, il governo forte che risponde, la popolazione che applaude senza rendersi conto di essere spettatrice di un copione già scritto.

Il grande inganno

Alla fine, quello che sta accadendo negli Stati Uniti non è una novità, ma un perfetto esempio di come il potere manipola le percezioni collettive. Non è un caso che queste immagini siano state diffuse con tanta enfasi. Servono a rafforzare la divisione tra “noi” e “loro”, a far dimenticare che l’America è stata costruita dagli stessi immigrati che oggi vengono deportati come criminali.

La domanda vera è: quando la gente smetterà di farsi ingannare? Perché la storia insegna che oggi sei quello che applaude, domani potresti essere quello in catene.

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